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Antropologia della morte

Ultima modifica 25 marzo 2022

Significati e simbologie del Venerdì Santo a Isernia
di Mauro Gioielli - www.maurogioielli.net

Articolo pubblicato sul settimanale «EXTRA», anno XV, n. 11, sabato 22 marzo 2008, pp. 16-17.

Rappresentare la Morte per superare la Morte. È questa, in estrema sintesi, la ragione culturale verso cui tende la drammatizzazione sacra del Venerdì Santo, che trova compimento nel cordoglio collettivo “messo in scena” attraverso la Processione del Cristo Morto. Il prologo liturgico di tale dramma rievocativo sta nei Sepolcri, il suo epilogo risolutore nella Resurrezione. L’itinerario da compiere è un itinerario temporale, ma è anche un itinerario di sentimenti.

I giorni del lieto dolore
I giorni della settimana santa sono i giorni del lieto dolore, i giorni durante i quali la «morte trionfata» conduce alla scoperta della «vita ritrovata». Il dies focale di questo percorso è il Venerdì, il dies del transfer dal lutto alla gioia, dall’angoscia alla liberazione. In tale giorno si celebra il più inquietante rito del cattolicesimo: la Processione del Cristo Morto. È il rituale commemorativo del sacrificio dell’Agnus Dei, in cui si perpetua l’antico schema naturalistico della morte e della rinascita.

Gli elementi iconici della Processione del Venerdì Santo a Isernia sono le statue del Cristo Morto e della Mater Dolorosa col cuore trafitto da sette pugnali [1], sono i busti degli Ecce Homo [2] e le Croci [3] della salita al Calvario [4], sono le Croci del Sudario [5]  e le Croci con gli strumenti della Passione [6].

Il dramma che si rappresenta è un dramma mobile, si muove in un territorio urbano che diviene spazio sacro. Un’intensa vibrazione psicologica e una profonda commozione avvolgono uomini e cose, esaltando il legame sociale del gruppo che, in tal modo, avverte il potenziamento della propria unione religiosa.

Poi giunge il Sabato Santo, momento di riflessione su ciò che s’è perso, momento di congiunzione verso il ritrovamento. Infine, appare l’alba della Pasqua (la morte ha visto sempre più sbiancare la propria ombra, e oltre quell’ombra c’è una nuova luce).

La morte obliterata
Nel giorno del Venerdì Santo, la mistica e devastante irruzione del dramma sacro che raffigura la cristiana res mortis riconduce l’individuo al senso concreto della res vitae, laddove il lutto è interruzione e la vita continuità. La morte, pertanto, deve essere ad ogni costo obliterata. Non a caso, infatti, nei riti della Passione, la celebrazione della morte innesca un’immediata replica positiva, una opposizione etnica al dolore del morire che intende restituire alla comunità la letizia del vivere. In tal senso, il Venerdì Santo è il dies amaritudinis ma anche il dies della futura serenità. È la data in cui il cordoglio e il conforto, la paura e il riscatto trovano unità esplicativa. È il giorno dell’incurabile malattia che, miracolosamente, rintraccia la strada che conduce all’insperata guarigione.

In questo giorno, dunque, l’energia vitale trova ragione nel suo opposto, perché è certo che maggiormente si apprezza la Vita, con quanto di buono e giusto essa contiene, nel momento in cui si guarda la Morte e si riesce a leggere tutto il dolore che quest’ultima procura e rappresenta.

Il dialogo dell’ego
Quale valore assegnare oggi alla Processione del Cristo Morto? Se gli si concede il valore di forza efficace per la soluzione favorevole di condizionanti nodi storici, bisogna convenire che il suo messaggio potrebbe apparire quanto meno ambiguo. Questo rito, difatti, privilegia maggiormente il lutto e il dolore e quasi affievolisce gli antichi significati positivi scaturenti dal sacrificio qui tollit peccata mundi. A ben considerare c’è più sentimento religioso durante la rappresentazione della sofferenza del Venerdì di Passione che non nel momento della Resurrezione pasquale. Ci si sente più coinvolti e trasportati nell’osservare il corteo che rievoca la morte del Figlio di Dio che non nel sentire le campane a distesa la domenica di Pasqua.

I motivi di ciò risiedono probabilmente nella sensazione del bisogno d’una continua espiazione che c’è nel credente, anche moderno. Egli riscontra in sé debolezze che impediscono antagonismi con la grandezza dell’universo. Sa d’essere fallace e di peccare quotidianamente. Per questo cerca di realizzare il proprio riscatto attraverso la partecipazione a momenti penitenziali, a forme di devozione e di raccoglimento.

L’uomo contemporaneo, di fronte a taluni grandi misteri divini (quali la morte e resurrezione di Cristo), dà origine ad un dialogo tra la propria anima e il proprio intelletto, tra la propria fede religiosa e la propria visione materialistica del mondo. La puntuale mancanza di risposte definitive agli interrogativi che fa nascere questo dialogo crea frustrazioni, e può ingenerare sensi di colpa che vanno combattuti attraverso esperienze e sacrifici diretti (andare a piedi scalzi, cingersi la testa di spine, portare croci, statue, ceri, ecc.) che sono una sorta di datio per la conquista di traguardi che sovente appaiono immeritati.


Note

[1] La tradizione popolare isernina vuole che i pugnali simboleggino i sette peccati capitali. Tutte le testimonianze orali che ho ascoltato, concordano. Questa credenza è antica e pervicace, pertanto anch’io, in più d’una pubblicazione, l’ho rispettata. Va, però, chiarito che, in realtà, il cuore dell’Addolorata è trafitto da spade o pugnali che rappresentano i suoi sette dolori: La profezia di Simeone; La fuga in Egitto; Gesù smarritosi nel Tempio; La Madre incontra il Figlio lungo la via del Calvario; La Madonna ai piedi della Croce; La deposizione, con la Vergine che accoglie fra le braccia il Cristo morto; Maria presso il sepolcro.

[2] Gli Ecce Homo portati in processione a Isernia sono dei busti statuari che raffigurano Cristo dopo la flagellazione: «Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: “Ecco l’uomo!”» (Gv 19, 5). Infatti, il governatore romano, che reputava Gesù innocente, per placare i Giudei che lo volevano giustiziare, pensò di accontentarli facendolo flagellare; poi, pronunciò la nota esclamazione: «Ecce Homo!», a voler significare: «Ecco l’uomo! Vedete che l’ho punito».

Un attributo fondamentale del busto dell’Ecce Homo è il fusto di canna posto fra le mani legate di Cristo. L’oggetto simboleggia l’arundo consegnata al flagellato dai suoi aguzzini, quale scettro derisorio. In più opere di Caravaggio, i flagellatori usano delle canne per conficcare sulla testa di Gesù la corona di spine.

[3] La croce della crocifissione di Cristo è di tipo latino, formata da due segmenti ortogonali, di diversa misura (il più lungo è quello perpendicolare). Il segmento minore si interseca all’incirca a tre quarti del maggiore, dividendosi in braccia uguali.

[4] A Isernia, sono dette Croci Calvario quelle che vengono trasportate a spalla dagli incappucciati. Intendono riprodurre la croce che Gesù portò sul Golgota. Erroneamente a Isernia qualcuno (anche nelle confraternite) chiama “Calvario” le croci “della Passione”.

[5] Quella detta “sudario” è una croce sul cui segmento orizzontale viene collocato, quasi a mo’ di drappo-insegna, un panno bianco. Il panno intende richiamare l’episodio narrato nel Vangelo di Giovanni: «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.» (Gv 20, 1-8).

Poiché l’episodio narrato da Giovanni avvenne di domenica, ossia due giorni dopo la crocifissione, la “croce sudario” usata nelle processioni del Venerdì Santo dovrebbe avere più giusti collegamenti con il sudario della Veronica (se non fosse che tale donna è ricordata solo in testi apocrifi). Secondo una tarda tradizione occidentale, l’emorroissa asciugò il volto di Gesù con un panno-sudario, mentre percorreva con la croce la salita del Calvario; il Volto di Cristo restò impresso sul telo (la vera icona, da cui il nome Veronica).

[6] Le Croci della Passione si contraddistinguono per la presenza degli oggetti del martirio di Gesù (la lancia che penetrò nel suo costato, il martello e la tenaglia usati per conficcare e togliere i chiodi da mani e piedi, la colonna della flagellazione, eccetera. C’è anche il gallo che ricorda l’episodio di Pietro che rinnegò il suo Maestro). Queste croci, fino a qualche anno fa, erano dette “della Via Crucis”.